Euro si euro no questo è il dilemma

L’Italia come l’Europa vive una crisi che, per durata ed effetti prodotti, è definita da più parti la più dolorosa mai vissuta, ben più pesante anche di quella del 1929 ricordata come la Grande Depressione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Le strategie di contrasto messe in campo nel vecchio continente sono ispirate a principi economici differenti rispetto a quelli che guidano le manovre attuate oltreoceano.

In realtà, la politica economica e monetaria europea risente enormemente dell’influenza che, forte del proprio potere economico, esercita la Germania legata, per reminiscenze storiche, al deciso perseguimento del rigore nella gestione delle finanze pubbliche, al fine di tenere sotto controllo l’inflazione attraverso il raggiungimento del pareggio di bilancio.

La perseveranza nello spingersi verso questo traguardo dovrebbe lasciare spazio, in momenti di asfissia, ad un intervento pubblico finalizzato al sostegno della domanda, così da stimolare i consumi, gli investimenti, la produzione, quindi, l’occupazione, pertanto, se ciò non accade, è perché si ha una visione miope della realtà economica che porta ad un ottuso avvicinamento verso un obiettivo inutile perché non salutare.

Si tratta, in effetti, di far tesoro degli insegnamenti di Keynes, favorevole ad un’azione dello Stato in economia che consentisse un risveglio delle singole componenti macroeconomiche della domanda aggregata, appunto, consumi, investimenti, esportazioni, beneficiando delle positive ricadute in termini di produzione e occupazione.

È, in realtà, quanto accaduto negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929, dove, pur di riuscire a ripartire, furono costruite ferrovie, autostrade, si inviavano gli operai a spazzare le strade, vincendo, così, la disoccupazione.

La medesima politica espansiva costruita sul binomio tagli alla spesa pubblica e stimoli monetari e fiscali è stata pensata e realizzata da Obama, arrivando in tal modo a riportare il proprio Paese alla crescita e alla riduzione del disavanzo pubblico.

Intanto l’Europa è ferma al rigore e all’inflazione.

I rimedi a questo immobilismo che, chi scrive riesce ad immaginare, sono due: uscire dall’euro per riconquistare la propria piena sovranità  o rivendicare un maggior peso politico in ambito UE, senza dover accettare in modo inerte ed inerme gli orientamenti teutonici.

Volendo partire da questo secondo espediente, ci si dovrebbe auspicare l’avvento di una politica non più germano – centrica che favorisca un brusco cambiamento di rotta indirizzato di più verso la crescita, auspicio, questo,che presuppone che Berlino sia concorde con la BCE di attuare una manovra monetaria espansionistica, accompagnata, ovviamente, da riforme strutturali specie nei paesi con debito e deficit elevati come l’Italia.

Questa inversione di marcia è più necessaria che mai in un’area euro che, stando alle statistiche ufficiali, è uscita dalla recessione ma su di essa incombe la minaccia della deflazione, della disoccupazione e dei non più tollerabili debiti pubblici.

La prima soluzione prospettata, invece, prevede l’uscita dall’euro, che potrebbe avvenire, si immagina, in modo negoziato ossia consentendo il ritorno alle monete nazionali nell’Europa del Sud associate ad una moneta unica creata nell’Europa del Nord  ovvero in modo traumatico attraverso la disintegrazione dell’euro.

Delle due congetture costruite, si ritiene più credibile quella dell’abbandono violento della moneta unica, con tutto ciò che ne deriverebbe, relativamente alle singole economie nazionali, in termini di crollo del Pil e, quindi, dell’occupazione, per non parlare della forte svalutazione che attaccherebbe le monete nazionali con aumento dei prezzi cioè inflazione, soprattutto nei paesi votati alle importazioni.

Un simile scenario si presenterebbe anche in Italia, dove una svalutazione stimata intorno al 20 – 30% della lira causerebbe immediatamente un’irreparabile perdita nei valori dei patrimoni e si parla di immobili e risparmi.

Con il deprezzamento della nostra divisa ne potrebbe conseguire una maggiore competitività sui mercati internazionali, per questo,però, arriverebbero investitori stranieri interessati ai nostri asset ormai privi di valore, facendo dell’Italia terra di conquista.

A ciò si aggiungano l’enorme incremento che si avrebbe nel debito pubblico nonché la speculazione dei mercati finanziari incentivata dall’instabilità, con prevedibile fuga di capitali e annientamento del sistema bancario.

Le verosimili conclusioni che si intravedono sullo sfondo in relazione all’ipotesi di uscita dall’euro suggeriscono, data la corrispondente devastazione, magari una sua rifondazione che renda possibile una reale e completa integrazione tra le diverse economie, nell’ambito della quale ci sia maggiore condivisione di scelte, evitando che queste siano espressione di un’unica tradizione.

Solo in questo modo si metterebbero a tacere gli euroscettici, le cui proteste sono, a dir il vero, sfogo di superati sentimenti nazionalistici se non addirittura di banali prese di posizione populistiche, oltre ad essere anacronistiche se si considera che in Africa sono in via di definizione ambiziosi protocolli di intesa funzionali all’introduzione di una valuta unica che incoraggi gli scambi e la crescita economica delle varie aree interessate.

Michele Monteforte                      

  

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