Il burnout, un male da evitare

Gli ambienti di lavoro, da sempre, sono caratterizzati da una complessità, più o meno grave, che determina una convivenza spesso appesantita da fenomeni capaci di esercitare pressioni mentali nocive della serena condivisione dei momenti vissuti all’interno delle organizzazioni.

Siffatto clima si è ulteriormente sovraccaricato di nuove forme di stress per effetto della pandemia che ha colpito le nostre vite da circa due anni orsono, conferendo una clamorosa attualità al tema del burnout e suscitando una forte sensibilità e un’accresciuta consapevolezza delle relative sventurate conseguenze sul quieto vivere negli ambiti lavorativi.

Sintomatica del manifestarsi di un simile balordo fenomeno è l’osservazione di un’esperienza lavorativa che risente di una sensazione di completo esaurimento delle energie mentali che genera un inevitabile distacco da ciò in cui si è impegnati, con fatale scarso rendimento, pregiudicando, in tal modo, il vantaggioso conseguimento degli obiettivi prefissati.

In sintesi, si smarriscono la passione, l’amore, l’entusiasmo ovvero i fattori che consentono brillantezza di esecuzione.

È pleonastico sottolineare che, in un contesto aziendale in cui regni una tale realtà, ad essere attaccato è lo stato psico-fisico di chi vi vive, sebbene secondo alcuni esperti il burnout non rappresenta una patologia, sotto il profilo squisitamente medico, bensì una spontanea reazione ad una situazione di stress prolungato o cronico, pertanto diventa decisivo adottare approcci che consentano, innanzitutto, di identificarlo e misuralo, per poi gestirlo in modo ottimale.

Sarebbe auspicabile seguire metodologie che inducano a prevenire, anziché risolvere, situazioni di burnout.

Ecco, dunque, che vanno neutralizzati i presupposti da cui scaturisce un clima aziendale pesantemente soffocante, evitando carichi di lavoro insostenibili, pressioni eccessive, responsabilità esagerate, innumerevoli decisioni critiche da assumere, conflittualità, insomma diventa assolutamente necessario scongiurare il sorgere di simili sconvenienti capaci di esercitare ripercussioni nocive non tanto sulla sfera individuale di ciascuno quanto, piuttosto, in termini generali, giungendo ad inquinare l’intero ambiente di lavoro, degenerando, pertanto, in un problema che attiene all’organizzazione nel suo complesso.

È indubbio che, chi riveste un ruolo di responsabilità quale manager o leader, deve farsi carico di affrontare una tale disfunzione, facendo leva anche su elementari nozioni di psicologia che possono aiutare a predeterminare l’impatto che un proprio comportamento, una propria scelta, un proprio orientamento possono generare sulla sensibilità altrui, in vista della creazione anche sul lavoro di un habitat ideale.

Alcuni esperti che hanno studiato il rischio di burnout sono giunti ad individuare precisi comportamenti catalogati come assolutamente da non fare propri.

In primo luogo, è consigliabile sfuggire l’uso di un linguaggio negativo e ciò perché, come la comunicazione non verbale, anche quella costruita attraverso le parole suscita emozioni ed è importante che queste siano positive.

Molto spesso si è portati ad esaltare l’imprevedibilità nel modo di agire, quale espressione di una mentalità libera, tuttavia per alcune persone diventa più congeniale ridurre al minimo l’incertezza che caratterizza la relativa e specifica azione, pertanto non resta che prenderne atto e adottare contromisure coerenti ad un simile stato di cose.

Si riscontra anche e non di rado che leader dinamici, proattivi, alla continua ricerca di sfide eccitanti tendano ad imporre, più o meno consapevolmente, la propria personalità, quando, invece, sarebbe più proficuo salvaguardare un clima di stabilità emotiva.

Altra abitudine da non avere è di guardare in prospettiva con troppo pessimismo, laddove anche un ottimismo strabordante può essere foriero di decisioni imprudenti, per cui conservare un forte equilibrio nella valutazione degli scenari è certamente utile per una più responsabile conduzione della proprio team, magari evidenziando leggermente di più le opportunità.

Infine, nutrirsi unicamente delle proprie emozioni, immergersi completamente ed unicamente nella propria quotidianità, non percepire minimamente l’animo dei propri collaboratori denota una deplorevole mancanza di empatia che, spesso, costituisce la principale causa del malessere che rende faticosa la vita all’interno delle aziende.

Perché ognuno dei partecipanti alla vita aziendale possa piacevolmente contribuire allo sviluppo dell’intera organizzazione deve potersi sentire realmente appartenente ad essa, coinvolto come persona nelle relative vicende quotidiane, responsabile nella condivisione delle sue sorti e ciò diventa l’esito naturale di un processo nel quale il leader deve impegnarsi, oltre che nell’analisi dei numeri, degli scostamenti, delle performance, altresì nella considerazione degli umori, nel rispetto dei sentimenti, nell’ascolto dei silenzi.      

          

 

Michele Monteforte

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