Il ricambio generazionale in azienda

Uno dei momenti cruciali nella vita di qualsivoglia azienda, piccola o grande che sia, è quello in cui si consuma il comunemente chiamato passaggio del testimone ovvero il subentro delle nuove generazioni a chi ha creato l’organizzazione e ne ha gestito, fino a quel punto, le sorti, magari in modo brillante.

È diffuso il detto secondo cui una generazione crea, una gestisce e la terza distrugge, a sottolineare l’incapacità di infondere facoltà e competenze di gestione negli eredi al trono aziendale.

Sarebbe, forse, superfluo sottolineare che giungere impreparati, senza un’attenta programmazione, a vivere una fase così tanto critica denota una grave mancanza di lungimiranza in chi deve necessariamente organizzare la propria successione in azienda, seria al punto da determinare una colpa pesante.

Non sempre, a dir il vero, l’improvvisazione nell’affrontare siffatto delicato momento è riconducibile all’inerzia nell’anticipare il futuro, mostrandosi scarsamente avveduti, dal momento che spesso chi deve passare la mano, come si suol dire, è frenato da una determinata resistenza che gli impedisce di scendere, definitivamente o solo parzialmente, dalla giostra della quotidianità imprenditoriale che, inevitabilmente, inebria di energia adrenalinica da cui è complicato disintossicarsi.

In ogni caso, prescindendo dalla dinamica che si mette in moto e che “distrae” da una saggia gestione di una congiuntura delicata nella vita aziendale, i cui effetti incideranno sulla continuità dell’intera organizzazione, emerge la disobbedienza al dovere che ogni famiglia imprenditoriale ha di garantire almeno una figura imprenditoriale per ogni generazione, capace di evolvere e adattare l’azienda ereditata al mutevole contesto competitivo.

Da più parti, però, si sostiene che non sia sempre possibile intercettare doti imprenditoriali all’interno della propria famiglia, avvalorando la tesi secondo cui imprenditori si nasce.

È il caso di ricordare, a tal proposito, Nelson Godman, filosofo di Harvard, il quale afferma che la difficoltà ad imparare come svolgere un preciso compito non è sufficiente per concludere che quella competenza debba essere innata.

Ciò vuol dire che, anche con riferimento all’imprenditorialità, nasciamo tutti uguali, sebbene non cresciamo tutti allo stesso modo.

Ecco che sono proliferati gli studi sul tema della imprenditorialità transgenerazionale partendo dall’ipotesi che sia possibile trasmettere tra generazioni l’abilità imprenditoriale seguendo un percorso di educazione incentrato sul riconoscimento di opportunità e su un comportamento proattivo, spingendosi oltre le consuete capacità e competenze che si apprendono frequentando i tradizionali corsi di studio.

Uno degli studiosi del tema della successione in azienda è stato Crant, il quale, osservando un gruppo di studenti, ha sostenuto che il primo indicatore dell’essere imprenditore è la proattività, prerogativa che aiuta a cogliere le opportunità che si intravedono, non solo in ambito imprenditoriale. Pertanto, essere proattivi non implica necessariamente che da adolescenti si debba fondare una start up, bensì avere una marcata propensione alla dinamicità.

Sempre stando a quanto scoperto da Crant, altro importante segnalatore di un’interessante inclinazione a ricoprire il ruolo di imprenditore è essere nato, ma soprattutto, cresciuto in una famiglia imprenditoriale, per cui respirare e vivere il clima familiare di imprenditori difficilmente sottrae da un futuro da capo d’azienda e ciò partendo dal presupposto che non è quello che viene raccomandato ai propri figli a generare in loro l’idea di cosa fare da grandi quanto piuttosto quello che si è visto e vissuto nel proprio ambiente di riferimento.

La conclusione a cui è semplice giungere non nega che creare imprenditori sia arduo ma sottolinea la possibilità che questo avvenga, anche senza che il fato eserciti la relativa azione o che sia necessario possedere particolari talenti congeniti, visto che è questione di educazione a cui, magari, si deve essere sottoposti sin dall’infanzia e che rappresenta una imprescindibile responsabilità, missione e impegno che ogni gruppo imprenditoriale deve avvertire verso le future generazioni ossia coloro che faranno l’azienda del domani: proprietà, dipendenti, clienti, fornitori, società.

Come spesso, se non sempre, accade è pressoché impossibile contenere la descrizione di un determinato fenomeno all’interno di un’unica spiegazione, che ne delinei le cause in modo esaustivo.

Non sfugge a questa regola il tema del ricambio generazionale in azienda, per cui è anche possibile raccontare la storia di chi si scopre imprenditore pur senza essere cresciuto in una famiglia imprenditoriale e che magari ha respirato il germe dell’imprenditoria non a casa ma all’università piuttosto che ascoltando casualmente chi raccontava le vicissitudini della propria azienda, insomma osservando il mondo.

Si direbbe, dunque, che l’animo di imprenditore non ha una precisa genetica, potendo vivere in chiunque sia mosso da ambizione, passione ed entusiasmo.      

    

Michele Monteforte

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