La rincorsa ossessiva alla perfezione

L’utopica ambizione di raggiungere la perfezione, specie nel lavoro, esercita un fascino o provoca un’ansia a cui tutti, probabilmente, abbiamo ceduto.

Si può essere vittima degli effetti di un comportamento perfezionista in tre modalità diverse corrispondenti ad altrettante relative forme di manifestazione.

Innanzitutto, si parla di perfezionismo autodiretto con riferimento alla persona che si presenta quale severo giudice di se stessa, imponendosi rendimenti sempre crescenti.

Soffre, invece, di perfezionismo eterodiretto chi percepisce coloro che lo circondano come perfetti, nutrendo, di conseguenza, aspettative sempre più improbabili.

Infine, si subisce il cosiddetto perfezionismo socialmente imposto allorquando si avverte l’esigenza di essere percepiti come perfetti nell’ambito sociale in cui si è inseriti.

Contribuiscono, spesso, a favorire una condotta tendente alla perfezione diffusi modi di dire, del tipo “volere è potere”, narrazioni che, inevitabilmente, finiscono per condizionare l’agire soprattutto di chi è sensibile anche a stimoli nascosti in adagi che, magari, sono privi di valore pratico.

In effetti, la natura sviante di simili massime è incoraggiata proprio dal racconto di storie di successo raggiunto attraverso sacrifici, assoluta dedizione, appunto ricerca maniacale della perfezione, che inducono a maturare la certezza che il raggiungimento dei propri traguardi, prescindendo dall’ambito, sia diretta conseguenza di questo modo di fare.

Sebbene l’abnegazione, la determinazione, la perseveranza siano da considerarsi virtù irrinunciabili, è, senza dubbi, da giudicare fuorviante la convinzione che il successo o il fallimento di ciascuno possa dipendere da un processo in cui entrano in gioco unicamente variabili direttamente e deliberatamente governabili, negando l’azione esercitata da fattori imponderabili che sfuggono alla volontà del singolo.

Può accadere che sia la causalità di un incontro, lo spunto di una lettura, un impedimento o un qualsiasi altro evento per nulla controllabile ad incidere pesantemente sull’esito di un proprio progetto magari dettagliatamente programmato in tutti i suoi aspetti.

D’altra parte, l’approccio al perfezionismo contrasta con la naturale componente errore, per nulla tollerato, semmai negato, “costringendo” a rinunciare al beneficio della crescita che ne può derivare.

Nel perfezionismo autodiretto lo sbaglio è vissuto come fallimento, dal momento che si genera una contrapposizione tra l’essere reale e l’essere ideale come risultato della malsana idea di porsi un obiettivo troppo ambizioso e, in quanto tale, impossibile da raggiungere, per cui ci si ritrova in un pericoloso stato mentale fatto di ansia se non addirittura di depressione.

È sempre più ricorrente il confondere il perfezionismo eterodiretto con la predisposizione alla leadership, che si sostanzia nella capacità di trarre il meglio da chi ci collabora e, pertanto, la bontà che vi si accompagna per nulla assomiglia alla nociva ossessione di prefissare standard sempre più impegnativi.

Promuovono il perfezionismo socialmente imposto certamente i social network, i quali producono un effetto fortemente persuasivo rispetto a modelli di vita per niente realistici, pertanto, non riuscendo ovviamente a raggiungerli, si arriva a vivere frustrazione perché si sviluppa l’ingiusta consapevolezza di non essere capaci di rispondere alle elevate aspettative che si pensa abbiano gli altri.

Non mancano studi specialistici che hanno dimostrato che il perseguire comportamenti tendenti alla perfezione sia strettamente correlato anche a pesanti disturbi alimentari, oltre ad essere causa di situazioni di malessere determinate da ansia, depressione, eccessivo stress.

È pleonastico sottolineare che l’aspirazione a migliorarsi personalmente rappresenta un’inclinazione sana, positiva, motivazionale che induce all’azione, all’esplorazione, alla scoperta, ma nella consapevolezza che non deve mai degenerare in una ricerca angosciosa del meglio, evitando, in tal modo, i comportamenti dannosi che ne deriverebbero in termini di errata gestione del tempo e delle proprie risorse, di ostilità verso se stessi e verso gli altri, di immobilismo per paura dell’errore.

Del resto, un grande come Aristotele era solito raccontare che “le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori, quindi, non esistono”, per cui sarebbe il caso di ricordarlo a chi si vanta, mostrando una malcelata supponenza, di essere perfezionista.         

          

Michele Monteforte

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