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Il caso Fiat: l'avvento di Marchionne

È il primo giugno 2004 quando inizia in Fiat l’era del pullover, anche se, quando Marchionne si presenta nella sala stampa del centro storico Fiat e posa per la foto di rito, trasgredisce e indossa giacca e cravatta, che di lì in poi lasceranno la scena all’irrinunciabile maglioncino.

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In realtà, quel giorno rappresenta il momento in cui il consigliere italo – canadese viene chiamato dal neo Presiedente, Luca Cordero di Montezemolo, ad assumere l’incarico di Amministratore Delegato ma non il debutto al Lingotto che, invece, si consuma nel maggio del 2003 allorquando il vertice è rappresentato dal duo Umberto Agnelli come Presidente e Giuseppe Morchio nella carica di Amministratore Delegato, che, accolte le dimissioni di alcuni consiglieri tra cui Gabriele Galateri, è alle prese con la necessità di ricomporre il Consiglio di Amministrazione, per cui si decide di riservare una poltrona all’Amministratore Delegato del Gruppo Sgs di Ginevra.

Sono passati pochi mesi dalla morte dell’indimenticabile Giovanni Agnelli, l’avvocato per antonomasia, pertanto all’interno del Gruppo s’impone la necessità di ridefinire l’organigramma ed è così che tocca ad Umberto Agnelli la responsabilità delle sorti dell’azienda e, si potrebbe dire, della reputazione industriale dell’intera famiglia.

Sarà lui, successore di Paolo Fresco nel ruolo di Presidente, ovviamente con Morchio, a voler ritornare al core business dell’auto dopo gli anni della strategia di diversificazione targata Cesare Romiti. Dunque, la scelta della concentrazione sul settore delle vetture implica il sacrificio di gran parte dei gioielli di famiglia, rappresentativi di investimenti realizzati nel corso del tempo impiegando risorse generate in eccesso rispetto ai fabbisogni aziendali. Purtroppo, la sua permanenza sul posto di comando dura soltanto un anno e nel maggio del 2004 un temibile cancro ne provoca la morte.

Dopo la fuoriuscita di Morchio, non accontentato dalla proprietà circa il suo desiderio di riunire in se stesso le due cariche di Presidente e Amministratore Delegato, viene alla ribalta il nuovo management, all’interno del quale assume una posizione di rilievo John Elkann, già da tempo nel Cda per volere del nonno e che ora ricopre l’ufficio di Vice – Presidente, ma che sarà destinato alla carica più alta allorché Luca di Montezemolo deciderà di defilarsi.

La sfida di Marchionne si presenta alquanto ardua, in quanto, creare le condizioni per la rinascita di Fiat in un mercato non proprio inesplorato, significa scommettere tanto se non tutto in termini di credibilità ed fama.

Si lavora su più fronti. Si comincia dal prodotto, per cui, dopo obbrobri chiamati Duna, Palio, Stilo, vengono lanciati nuovi modelli che si riveleranno autentici successi. È il caso della nuova Panda, della Grande Punto e della Ypsilon.

Anche l’immagine aziendale necessita di essere risollevata, quindi si dà avvio ad una campagna di rilancio del marchio allo scopo di elevarlo a griffe.

In tema di organizzazione, Marchionne viene ricordato anche come il grande epuratore, nel senso che si rende portatore di una nuova concezione di organizzazione che preveda un appiattimento delle gerarchie finalizzato alla riduzione delle distanze tra chi decide e chi produce, con conseguente allontanamento di molti di coloro che occupano posizioni intermedie. Si diffonde così il principio della fabbrica snella tanto caro anche a Romiti.                      

Una delle battaglie vinte da Marchionne, anche grazie all’ottimo lavoro fatto un po’ di anni prima da Paolo Fresco, è con General Motors, con cui era stata iniziata un’impegnativa trattativa avente ad oggetto l’esercizio dell’opzione put ossia l’obbligo a carico di Gm, scaturente dall’accordo siglato tra Paolo Fresco appunto e Richard Wagoner numero uno di Gm, in forza del quale l’azienda americana avrebbe dovuto rilevare il restante 80% delle azioni Fiat ancora in mano alla famiglia Agnelli, dopo che questi avevano scambiato inizialmente solo il 20%.

Il negoziato si conclude con la rinuncia di Gm, fortemente preoccupata di un possibile fallimento di Fiat, di rispettare gli accordi assunti, con il conseguente versamento nelle casse di Torino di circa 2 miliardi di euro a titolo di penale.

Dopo aver evitato, con l’aiuto di Merryll Lynch,  il passaggio della proprietà di Fiat a favore di quelle banche che qualche tempo prima avevano concesso un cospicuo credito pena la sua trasformazione in azioni in caso di mancata restituzione, il processo di cambiamento industriale inaugurato da Marchionne raggiunge il suo apice con l’annuncio del progetto conosciuto sotto il nome di Fabbrica Italia, il quale si articola su operazioni di natura industriale e finanziaria.

È proprio questo piano a suscitare le più ardenti polemiche, non ultime quelle provocate dalle affermazioni di Marchionne, cronaca degli ultimi giorni, secondo cui Fabbrica Italia, varato nel 2010 e che avrebbe dovuto avere il suo epilogo nel 2014, non sarebbe più attuale.

Si era giunti allo sviluppo di questo programma attraverso la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese, perché giudicato non competitivo; l’acquisizione di Chrysler, di cui il Lingotto arriva a detenere il 51% delle azioni dopo la restituzione dei presiti ai governi canadese e americano; i nuovi accordi che Fiat impone in Italia a partire da Pomigliano che ne diventa l’emblema, dove, mediante il ricorso ad un referendum definito poco democratico, vengono stabilite nuove condizioni che prevedono l’abolizione dei precedenti accordi sindacali e dei relativi diritti, nonché la rinuncia allo sciopero a beneficio del costante utilizzo degli impianti, cancellando, come qualcuno disse, un secolo di contrattazione collettiva; la scissione del business in due distinte realtà societarie: Fiat Spa operante nel settore delle auto e Fiat Industrial invece dedita alla produzione di camion (Iveco), macchine agricole e movimento terra; lo scontro duro con Fiom.

Eccezion fatta per la proprietà di Fiat rappresentata dalla famiglia Agnelli, è probabilmente duro individuare un punto di vista che porti ad essere con la politica di Marchionne. Dai dipendenti, alla stampa, a coloro, istituzioni incluse, che hanno a cuore le sorti dell’economia nazionale, sul cui andamento in misura rilevante incide lo stato di salute di quella che resta la principale realtà industriale del paese, ad ognuno di noi che apparentemente nulla a che fare con Fiat, il giudizio sul modo di fare impresa di colui che è stato definito il manager filosofo tende ad essere negativamente unanime, ma forse facendo ricorso ad un’analisi più profonda, pur non potendo essere certamente sovvertito, con maggior buon senso lo si potrebbe tenere sospeso.

Un punto su cui non si può che convenire è che di fatto è stato un “rivoluzionario” in quanto ha indotto una metamorfosi nell’approccio alla gestione che ha dominato da sempre nelle aziende italiane, i cui effetti sono controversi.

In questo processo di americanizzazione si osserva una progressiva emarginazione del ruolo del sindacato, che forse aveva già da tempo rinunciato alla sua identità, a cui si accompagna un nuovo modo di guardare alle conquiste del mondo operaio e non solo di Fiat che all’improvviso si trasformano in privilegi da sopprimere. Ecco che al confronto subentra il comando, alla concertazione l’autorità, alla libertà di espressione il rischio del licenziamento se si sceglie di far presente il proprio parere: tratti questi di un disegno che si materializza attraverso decisioni imprevedibili, come portare Fiat fuori da Confindustria o creare una newco a Pomigliano al fine di sottrarsi agli accordi presi tra l’associazione delle imprese, appunto, e le confederazioni sindacali, ai quali il Lingotto sarebbe stato costretto ad allinearsi continuando a farvi parte.       

In questo quadro si inserisce l’incertezza circa la permanenza delle attività produttive in Italia, così come desta perplessità la disputa, tra Torino e Detroit, su dove stabilire definitivamente la sede legale, aspetto puramente formale, e il quartier generale, prospettiva certamente di maggior rilevanza strategica.

Detto ciò, a parer di chi scrive cogliere in Marchionne semplicemente o solamente opportunismo oppure vedere la Fiat di oggi come un’azienda dove vige la tirannia può essere profondamente fuorviante, considerazione che matura osservando i meriti che gli possono essere riconosciuti. Sarà vero che lui ha enormemente contribuito a liberare l’Italia da una mentalità troppo provinciale o, comunque, poco sensibile a percepire ciò che accade oltreoceano, ha ristabilito in azienda il principio del merito, ormai da decenni dimenticato, ha mostrato spregiudicatezza nel lanciarsi in sfide che sembravano impossibili e salvare Fiat dal fallimento lo era.

Dunque, è proprio questo contrasto tra le abilità di un manager e il mettere in discussione argomenti che sono sempre apparsi inviolabili quale la democrazia nelle fabbriche a suggerire di recuperare la celebre frase Ai posteri l’ardua sentenza che Alessandro Manzoni usa come risposta alla domanda che egli stesso si pone nella celebre poesia “Il 5 Maggio”: Fu vera Gloria?

Promuovere una valutazione con conseguente verdetto sull’attualità di Fiat e non solo si presenta come impresa ardua e, per questo, presuntuosa, pertanto, onde evitare ritrattazioni, magari è consigliabile attendere, con l’auspicio che ogni attore protagonista, Governo, azienda, dipendenti e, perché no, sindacati, possa interpretare il proprio ruolo nel pieno rispetto delle regole del gioco così da poter giungere ad un’assoluzione piena per tutti.

 

                                                                                                                                              Michele Monteforte      

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