Rispondi al commento

L’economia del calcio italiano

Sembra non lontano, in effetti non lo è, il tempo in cui il campionato italiano di calcio rappresentava un traguardo per tutti, una tappa obbligata per una carriera di successo, un banco di prova da superare perché da calciatore dotato si potesse meritare l’appellativo di fuoriclasse.

 

 

 

 

 

 

 

Era l’epoca in cui il mondo pallonaro ancora non conosceva il concetto di lucro, i diritti televisivi erano appannaggio di settori legati al cinema e le partite si vivevano attraverso le radioline. Una stagione in cui vendere qualche biglietto in più significava fare la differenza e poter puntare un giocatore di primo ordine.

Le società calcistiche erano costrette ad operare avendo a disposizione risorse assolutamente limitate, pertanto accadeva che alcune di esse, specie quelle di provincia non dotate di bacini d’utenza importanti, erano costrette a soccombere verso retrocessioni o, in alcuni casi, default indotti da cause che si potrebbero definire fisiologiche. 

La realtà attuale si è trasformata in tutte le sue componenti al punto che dovrebbe risultare paradossale dover parlare di difficoltà finanziarie con riferimento all’azienda calcio nel suo complesso, dal momento che le fonti di entrata si sono diversificate passando dai diritti tv alle sponsorizzazioni tecniche e commerciali, dal merchandising allo sfruttamento dei diritti di immagine, fino a giungere alle attività, quali ristorazione e intrattenimento, che formano l’indotto derivante dalla proprietà dello stadio.

In un contesto simile, andare incontro a squilibri gestionali è sintomo di cattiva o forse maldestra gestione da parte dei management soprattutto delle grandi organizzazioni, inclini ad adoperare gli ingenti fondi disponibili in modo per niente oculato, in quanto destinati per lo più a coprire i faraonici ingaggi dei calciatori, finendo per dopare l’intero sistema, anziché alla creazione di concrete condizioni funzionali ad una crescita solida e duratura.

Sebbene non manchino eccezioni, si pensi al Bayern Monaco che riesce a trionfare sia in campo che nei bilanci oppure al Napoli che, malgrado abbia per ora vinto poco, segue un percorso virtuoso, il perverso costume descritto rappresenta un approccio condiviso in molti paesi e in ogni caso nei tre campionati europei più importanti: Italia, Spagna e Inghilterra. In Francia si naviga più a bassa quota in termini finanziari per il minor appeal che esercita il campionato transalpino, tranne il caso unico del PSG, dove, però, le spese folli vengono finanziate non con risorse generate dalla gestione bensì con i petrol – dollari dello sceicco. Ancora una volta non si può parlare di gestione equilibrata.

Il Sole 24 Ore ha recentemente pubblicato un articolo che riporta i risultati di un approfondito studio condotto sul calcio italiano dalla PricewaterhouseCoopers in collaborazione con la Federcalcio, dal quale emerge che, rispetto al traguardo del Fair Play finanziario tanto voluto dall’Uefa, il calcio italiano si dimostra ampiamente in ritardo, dal momento che si registrano crescenti perdite e debiti in aumento, laddove si giudicano carenti le entrate derivanti dall’utilizzo dello stadio di proprietà.

In effetti è stata realizzata un’analisi sui 547 bilanci delle squadre che hanno partecipato ai 4 campionati professionistici, coprendo un arco temporale compreso tra il 2007 e il 2012. Non si è tenuto conto di 95 bilanci relativi a società non ammesse o non iscritte.

I dati allarmanti, i quali raccontano di perdite nette relative al 2012 per il settore calcio nel suo complesso di €. 388 milioni, desterebbero uno stupore ancora maggiore qualora non si tenessero in considerazione le plusvalenze derivanti dalle cessioni di giocatori stimate in €. 537 milioni, pertanto il deficit complessivo arriverebbe a €. 925 milioni.

Poiché, esclusi pochi casi, le richiamate plusvalenze sono conseguite nel mercato tra società italiane, volendo adottare il criterio di redazione del bilancio consolidato riguardante il comparto calcistico, esse andrebbero annullate come operazioni interne o infragruppo, pertanto si giunge alla consapevolezza che i 925 milioni di perdita rappresentano la vera dimensione dello squilibrio gestionale del calcio professionistico italiano capace di generare un fatturato, escluse le plusvalenze qualificabili come proventi straordinari, di €. 2.123 milioni, il che significa che per ogni 100 euro di ricavi si perdono 43,57 euro.

È la serie A a contribuire maggiormente a questi numeri inquietanti, tra le cui squadre solo 8 si pregiano di avere un bilancio in attivo e il Napoli è l’unica grande.

Guardando oltre i confini, lo studio rivela che solo l’Inghilterra raggiunge performance peggiori rispetto all’Italia, con una perdita netta complessiva al netto delle plusvalenze di €. 434 milioni, mentre in Spagna il dato negativo è di €. 147 milioni.

In Germania, invece, nel calcio come nell’economia in generale il trend è sorprendentemente positivo a +37 milioni, a conferma che è possibile il triplete preservando e consolidando affidabili equilibri gestionali. Bayern Monaco docet.

 

Michele Monteforte                      

 

  

Rispondi

  • Indirizzi web o e-mail vengono trasformati in link automaticamente
  • Elementi HTML permessi: <a> <em> <strong> <cite> <code> <ul> <ol> <li> <dl> <dt> <dd>

Ulteriori informazioni sulle opzioni di formattazione

Powered by Fastcom Group SRL