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Lo stato dell’industria italiana

Le vicende drammatiche che hanno colpito alcune tra le maggiori realtà aziendali del nostro paese impongono seri interrogativi sul futuro manifatturiero italiano.

Un tempo le produzioni italiane primeggiavano in più settori, dalla moda al comparto alimentare, dal lusso al siderurgico, contribuendo all’affermazione sui mercati mondiali di quel made in Italy sinonimo di creatività, qualità, innovazione. Tutti motivi di orgoglio nazionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

Negli ultimi decenni il quadro si è completamente stravolto, tant’è che il fiore all’occhiello rappresentato dai prodotti ideati, progettati e realizzati da menti e braccia italiane è appassito e rischia di morire.

Le cronache economico – aziendali raccontano di storie deprimenti di un’imprenditorialità italiana che ha perso la sua identità, anzi no, volendo essere aspramente critici, si ritiene che sussistano tutti i presupposti per poter sostenere che sia andata dimenticata se non calpestata la dignità.

Loro Piana, Bulgari, Pomellato per quel che riguarda il lusso, Valentino, Fendi, Gucci se si considera la moda, Galbani, Cesare Fiorucci, Pernigotti per quel che concerne il comparto alimentare, sono solo alcuni esempi di marchi prestigiosi giunti alla ribalta dei rispettivi business grazie all’opera dei loro fondatori finiti poi per essere di proprietà straniera.

A ciò si aggiunge il rischio forte che incombe su ambiti produttivi che rivestono da sempre una rilevanza strategica per l’intera economia nazionale, il cui effetto sarebbe quello di uscirne con conseguenze macroeconomiche difficili da stimare in termini, innanzitutto, di occupazione con tutto quello che alla fine ne deriva come impatto sui consumi, quindi, produzione e di nuovo lavoro, innescando un circolo vizioso pericolosissimo.

Sono le vicissitudini che condizionano l’esistenza del Gruppo Riva, leader della siderurgia in Italia ed uno dei complessi aziendali più importanti in Europa, che, negli ultimi giorni, destano pesanti preoccupazioni visto lo stop della produzione in sette stabilimenti ubicati nel Nord Italia, lasciando appese ad un filo le sorti, non solo delle 1.400 famiglie direttamente coinvolte nel fermo, ma anche di quelle dei lavoratori impegnati nell’indotto, anch’esso di dimensioni notevoli.

Questo, ovviamente, si unisce alle già complicate problematiche che attanagliano la gestione dello stabilimento di Taranto dell’Ilva, che fa capo al medesimo Gruppo.

A parere di chi scrive, le ragioni di siffatto calvario, che vede l’industria italiana diventare una divisione di gruppi stranieri se non si arrende alle avversità congiunturali, vanno ricercate all’interno delle aziende coinvolte, ma anche a livello di Paese.

In primo luogo, il comune denominatore che spiega i fenomeni di cui si è detto, diversi quanto a manifestazione ma identici sotto l’aspetto delle cause generatrici, è la presenza di un management inadatto, miope, privo di vocazione imprenditoriale, incapace di prevenire nuovi scenari e improvvise congiunture, costretto poi a cedere il passo, ad affidare il testimone in mani più oculate o, come extrema ratio, a gettare la spugna. Si badi che non c’è crisi che tenga tale da poter giustificare simile incapacità di gestione.

Tuttavia, esistono altresì spiegazioni strettamente correlate al sistema, le cui imperfezioni ostacolano quanti, invece, colgono le opportunità e affrontano le minacce che il mercato propone dando prova delle assolute competenze possedute.

Ad oggi l’Italia è un paese che non ha pensato ad una strategia industriale per le sue imprese o addirittura, come affermato dal Presidente di Confindustria Squinzi, vi domina incomprensibilmente una diffusa mentalità anti impresa manifatturiera.

I mostri si chiamano alta pressione fiscale, burocrazia amministrativa, leggi incerte, farraginose e difficili da interpretare, per non parlare delle riforme a cui la Politica ancora rinuncia, privando di prospettive di occupazione i molti giovani costretti ad emigrare.

Quanto detto induce a pensare che poca importanza è riconosciuta alla capacità con cui l’industria manifatturiera contribuisce al Pil nazionale, in una misura stimata nel 17% o meglio nel doppio se si considera anche l’indotto, generando l’80% dell’export italiano e garantendo ricerca, innovazione e posti di lavoro qualificati e ben retribuiti, malgrado la sfavorevole situazione economica attuale.

Le inefficienze nostrane, unite alle pretesi, per lo più teutoniche, provenienti dall’Europa, forse anch’essa smarrita perché senza visione, che impone ricette e programmi, hanno distrutto molta capacità produttiva ed occupazione.

Ancora una volta tocca al diffuso tessuto delle piccole imprese reggere il destino del nostro Paese. Ma fino a quando può durare?                        

 

Michele Monteforte                       

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