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Da Fiat a FCA, proviamo a capire perchè

Con la nascita di FCA, acronimo che sta per Fiat Chrysler Automobiles, che decreta la fine del marchio Fiat, finisce un’epoca iniziata alla fine dell’800, che rappresenta una pagina considerevole della storia del nostro Paese.

 

 

 

 

 

 

 

La svolta non è solo formale, dal momento che, quella che tutti siamo abituati a chiamare Fiat e che difficilmente impareremo a ricordare menzionando la nuova sigla, sloggia dall’Italia per espatriare in Olanda con la sede legale e nel Regno Unito per quel che riguarda la residenza fiscale.

Questo epilogo, parecchio anticipato benché si è sempre dibattuto sul possibile nuovo quartier generale da stabilire a Torino ovvero a Detroit, suggerisce due ordini di considerazioni, tecniche e patriottiche.

Sotto il profilo aziendale, la scelta del duo Elkann – Marchionne della doppia residenza è perfettamente in linea con una tendenza che va diffondendosi, al punto da poter immaginare che quello di Fiat possa essere un esempio seguito da altri.

Ovviamente, per le sorti del nostro sistema – paese, è da scongiurare un’emigrazione in massa.

La finalità perseguita attraverso siffatte operazioni di internazionalizzazione è di trarre vantaggi da leggi societarie più flessibili, mercati dei capitali più efficienti e, non meno importante, regimi fiscali più favorevoli.

L’Olanda, per esempio, è stata pensata come luogo in cui fissare la sede legale perché è una nazione con un’economia stabile e solida, dove la normativa sulla protezione di marchi e brevetti è all’avanguardia, così come il diritto societario che consente innovative operazioni sul capitale, nonché di godere di diritti di voto, a certe condizioni, pari al doppio di quelli spettanti in proporzione alla propria partecipazione sociale.

Il Regno Unito, invece, rappresenta una meta ambita dalle aziende grazie alla competitiva imposizione fiscale, che prevede un’aliquota sugli utili societari pari al 21% per il 2014, mentre per il 2015 scenderà ulteriormente al 20%. A ciò si aggiunga che, per combattere il fenomeno delle doppie imposizioni, è stata creata una fitta rete di trattati internazionali, mentre non sono previste ritenute alla fonte sui dividendi.

È proprio in virtù di un accordo tra Regno Unito e Paesi Bassi che è stato possibile per il management del Lingotto (anche questi modi di dire sono a rischio estinzione) attuare la strategia descritta, infatti questa convenzione prevede di assegnare la residenza fiscale e, di conseguenza, il potere di tassazione allo Stato dove è stabilito il centro di direzione effettiva, nella fattispecie il Regno Unito, prescindendo dalla sede legale.

Veniamo, ora, alla reazione emotiva scatenata dall’essere e sentirsi italiani.

È da giudicarsi legittimo ricordare in questo frangente gli innumerevoli aiuti di cui ha goduto la Fiat nel corso del tempo sotto forma sia di sussidi statali, quali gli investimenti agevolati nel Sud nonché i contributi alla rottamazione, sia di operazioni societarie a condizioni economiche convenienti, ci si riferisce, come scontato, alla vendita a prezzo di favore di Alfa Romeo, un tempo azienda pubblica, per non dimenticare della politica commerciale delle quote di importazione attuata dallo Stato italiano a protezione delle produzioni di casa nostra contro le auto coreane e giapponesi.

Chiarito che non c’è stata riconoscenza da parte dei vertici Fiat, sebbene sarebbe più corretto dire da parte della famiglia Agnelli, è il caso di recuperare un minimo di razionalità e buon senso per provare a ragionare in modo più obiettivo.

Preme sottolineare che, nonostante gli spostamenti di cui si è detto, finché FCA avrà stabilimenti in Italia continuerà a pagare le tasse al nostro fisco, a meno che non si decida di delocalizzare l’intera produzione e a questo punto, poiché il cambio di residenza fiscale sarebbe equiparato ad una cessione di beni societari, si applicherebbe un’ultima imposizione, meglio nota come exit tax, sulle cosiddette plusvalenze latenti che si considerano realizzate all’atto del trasferimento all’estero. Ma quest’ultima, ancora oggi, sembra un’ipotesi molto remota.

Si provi a spostare l’oggetto dell’analisi dalla Fiat all’Italia come nazione, interrogandosi sugli aspetti che caratterizzano la vita delle aziende, ma anche delle persone e ci si renderà conto che le mortificazioni sono molteplici.

Un fisco asfissiante, una burocrazia troppo ingombrante, leggi difficili da interpretare, infrastrutture fatiscenti e molto altro che fanno del nostro Paese una terra da cui scappare se si vuole avere fortuna.

Questo è un sentimento piuttosto diffuso, tant’è che il caso Fiat, come si diceva, può essere emulato, si pensi alle banche oppure alle compagnie di assicurazioni che, trasferendosi all’estero, oltre a godere di benefici tributari, sarebbero classificate non più come imprese a rischio operanti in un Paese a rischio, bensì come multinazionali affidabili.

Pertanto, una più pacata valutazione magari indurrebbe a convincersi che è meglio avere una Fiat internazionale solida e sana che non una Fiat nazionale malata.

Se, non solo imprese, ma anche laureati e manager italiani affollano università e aziende straniere ci sarà un motivo.

In realtà, si ribadisce, i motivi sono più di uno, i quali impongono una breve riflessione ma soprattutto una rapida azione volta a rimuoverli perché si restituisca al nostro Paese una massiccia dose di competitività, arrestando questa fuoriuscita di risorse che altrove trovano terreno fertile per affermarsi.

Un principio fondamentale di democrazia suggerisce che un Paese può considerarsi veramente libero quando i suoi cittadini scelgono di viverci e non quando sono costretti a farlo, per cui il maggiore appeal che si conquisterebbe impegnandosi in un serio processo di riforme strutturali renderebbe la decisione di stare in Italia naturale per chi vi è già dentro e più agevole per chi ci guarda da fuori.

 

Michele Monteforte                      

  

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