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Il default dell’Argentina

La storia dell’Argentina, quella economica, è costellata di ripetute cadute in default che hanno costretto sulle ginocchia diverse generazioni. Ben otto in tutto. Addirittura due negli ultimi 13 anni.

Eravamo a cavallo tra il 2001 e il 2002 quando Buenos Aires dichiarò l’incapacità di solvenza su circa cento miliardi di dollari di debito estero, con gravi ripercussioni sull’economia interna nonché sui mercati globali.

Si giunse al 2005 e il governo sudamericano architettò una ristrutturazione del debito, riproposta poi nel 2010, i cui effetti avrebbero determinato perdite fino al 70% per gli investitori.

Parte di questi, pari al 7%, non aderì all’accordo di ristrutturazione e tra questi due hedge americani, NML Capital di Paul Singer e Aurelius, i quali decisero di affrontare il caso Argentina nei tribunali americani per riuscire ad ottenere il pagamento totale del valore dei loro bond, corrispondente a 1,3 miliardi intanto saliti a 1,5 miliardi per effetto della capitalizzazione degli interessi.

La giustizia americana, fino alla Corte Suprema, ha riconosciuto le loro ragioni, suscitando un atteggiamento di Buenos Aires di assoluto lassismo appellandosi alla propria impossibilità materiale ma, soprattutto, legale di raggiungere un nuovo accordo con gli hedge, “proclamando”, di fatto, l’ennesimo default, questa volta coinvolgendo anche coloro che avevano aderito alla ristrutturazione, con l’inevitabile conseguenza di esporre il paese alla procedura definita acceleration clause, la quale prevede che i creditori possano richiedere il pagamento immediato e completo di quanto a loro spettante, che dovrebbe ammontare a circa 29 miliardi di dollari.

Qualora si dovesse materializzare l’evenienza sopra prospettata, l’effetto sarebbe di prosciugare le casse della Banca Centrale di Buenos Aires.

In verità, l’attuale default argentino può definirsi solo puramente reale e tecnico, in quanto manca ufficialmente la corrispondente dichiarazione, anzi, e questa è storia dei nostri giorni, il ministro dell’economia argentina, Axel Kicillof, sfoderando fantasia e forse sarcasmo, nel corso di una conferenza stampa ad hoc ha precisato che il suo Paese non è insolvente vista l’intenzione di pagare, tra l’altro manifestata attraverso il trasferimento a New York dei fondi necessari a coprire gli interessi in scadenza. Ovviamente quelli maturati sui soli bond ristrutturati.        

Si dice che di buone intenzioni siano lastricate le vie dell’inferno, infatti il brillante ministro dimentica o fa finta di non ricordare come i richiamati fondi siano stati congelati dai giudici perché irregolari in mancanza di pagamenti accettati da tutti i creditori, compresi i dissidenti.

Successivamente Kicillof è ritornato sulla retta via, come dimostra il suo riferimento alla decisione del tribunale di respingere la richiesta presentata dalla Repubblica Argentina di sospensione della sentenza di condanna, visto il mancato consenso da parte degli hedge fund.

Al di là degli annunci, la realtà dei fatti ci racconta di un Paese nuovamente in dissesto, provocando ancora una volta gravi contraccolpi che cadranno certamente sui mercati borsistici, anche se va considerata l’assenza di Buenos Aires dal palcoscenico obbligazionario globale dal primo default del 2001-2002, ma gli esiti più catastrofici saranno sperimentati, oltre da chi ha già sul groppone titoli del debito pubblico argentino comprati prima del 2001 e tra questi banche, risparmiatori, investitori istituzionali ma anche stati, dalla popolazione che sarà chiamata a confrontarsi quotidianamente con una recessione che attanaglia sempre di più e un’inflazione già ora ormai giunta al 40%, senza che possa cambiare lo stato delle cose la condanna, magari morale, mossa agli hedge di ingordigia, trattandosi comunque di soggetti che hanno prestato denaro, il cui diritto alla restituzione non può essere assolutamente privato di valore e di significato.

C’è un rovescio della medaglia, però. Dettato dal buon senso.

I contratti di rinegoziazione del debito argentino siglati tra il 2005 e il 2010 prevedono una clausola, denominata R.U.F.O., in virtù della quale a tutti coloro che vi avevano aderito è riconosciuto il diritto di richiedere migliori condizioni qualora queste fossero riconosciute ad altri. Ciò vuol dire che, se il governo argentino decidesse di assecondare le richieste di pagamento integrale avanzate dai fondi, si scatenerebbe la rivolta dei risparmiatori che avevano accettato termini ben più modesti in occasione della rinegoziazione.

Il risultato sarebbe un importo da rimborsare che arriverebbe all’insostenibile, mettendo a dura prova qualsivoglia economia.

Come sovente accade, la soluzione sta nel mezzo, pertanto,  fermi restando i diritti riconosciuti e, quindi, legittimi dei possessori di bond argentini, da questa impasse probabilmente si esce solamente accettando di perdere un po’ tutti, per consentire a tutti una parziale soddisfazione, salvaguardando il futuro dell’economia non solo argentina ma di quella mondiale.       

              

Michele Monteforte                       

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