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Mutui: Proviamo a fare chiarezza

L’acquisto della casa dove stabilire gli affetti familiari o magari da destinare ad un utilizzo vacanziero, ma anche la costruzione secondo i propri gusti spesso sono al centro dei sogni di molti o perfino dei progetti la cui concretizzazione diventa manifestazione della realizzazione personale. Investimenti così ambiziosi richiedono l’impiego di cospicue risorse che per i più non possono essere attinte da “salvadanai” riempiti in breve tempo, pertanto ci si vede costretti a bussare alle porte di qualche banca e convincerla del proprio merito creditizio affinché possa erogarci, sottoforma di mutuo, quanto occorre per finanziare l’operazione che ci si propone di attuare. In considerazione della stagione economica che si vive, caratterizzata da una congiuntura i cui effetti si ripercuotono inevitabilmente anche sulle condizioni di finanziamento, appare opportuno sviluppare alcune considerazioni di merito. I condizionamenti che investono i termini di un’iniziativa di prestito, sia essa finalizzata al finanziamento di un programma di investimenti ovvero destinata a sostituire una precedente a condizioni migliori (surroga), provengono dalle politiche della Bce, dall’andamento dell’inflazione, dal rendimento dei titoli di Stato. L’elemento principale di un mutuo che attira su di sé la più forte attenzione è senza dubbio il tasso di interesse, sul quale si concentra la massima parte della trattativa e che diventa il fattore di valutazione della competitività di una banca. Ciascun istituto di credito, nel determinare i tassi da applicare ai propri mutui, parte da un tasso interbancario in uso in Europa, che nel caso dei mutui a tasso variabile è noto come Euribor laddove per quelli a tasso fisso è l’Eurirs meglio conosciuto come Irs (Interest rate swap). Questi tassi esprimono il costo del denaro all’ingrosso nel senso che rappresentano una media dei tassi a cui varie banche, soprattutto europee, dichiarano di prestarsi denaro tra loro. Una differenza rilevante tra l’Euribor e l’Irs è che il primo arriva a scadenze massimo di 12 mesi, mentre l’Irs ha una proiezione di lungo periodo, per cui a seconda della durata del mutuo va da un minimo di 1 anno ad un massimo di 50. Con riguardo ai mutui a tasso variabile, in alternativa all’Euribor si potrebbe optare per il tasso stabilito dalla Bce, il tasso all’ingrosso per eccellenza che misura il costo che le banche sostengono per prendere capitali in prestito direttamente dall’Istituto di Francoforte. Anche in questo caso c’è da segnalare un aspetto considerevole ossia che mentre l’Euribor varia ogni giorno e generalmente le banche utilizzano quello a 1 e a 3 mesi, il tasso Bce varia solo per espressa decisione del suo Governatore, il nostro Mario Draghi, che nell’ottobre del 2014 ha portato il tasso da 0,15% a 0,05%, un livello così basso mai toccato nella storia. Individuato il tasso di riferimento, si passa al tasso che potremmo definire al dettaglio perché è quello che viene proposto al cliente aggiungendovi lo spread che altro non è che la percentuale che la banca stabilisce in funzione delle politiche di marketing programmate e, di conseguenza, dei margini che mira a realizzare attraverso le operazioni di mutuo. Può essere pleonastico sottolineare che si tratta di un aspetto su cui la banca ha ampie facoltà di gestione, visto che sarà lei a deliberare in merito, motivo per il quale lo spread diventa la discriminante nella scelta dell’istituto a cui rivolgersi. La scelta preliminare deve riguardare, però, la tipologia di mutuo che si vuole adottare cioè se a tasso fisso o variabile, decisione che impone di considerare molteplici variabili economiche. Iniziamo col dire che in economia, a parere di chi scrive, non esistono previsioni a medio e lungo termine, quindi, laddove si dovesse prediligere un tasso variabile sarebbe saggio garantirsi la possibilità di fissare un tetto massimo, in gergo cap, oltre il quale il tasso non può salire oppure riservarsi l’opportunità di rinegoziare la misura del tasso dopo un certo lasso di tempo, per esempio due anni, così da poter sempre decidere la congruità del tasso in relazione alla congiuntura economica del momento. La fase che viviamo è caratterizzata da tassi Euribor ai minimi storici, al punto che a gennaio quello ad 1 mese per qualche seduta è scivolato addirittura in area negativa e ciò ha significato un’interessante riduzione delle rate a tasso variabile, proprio perché sia gli Euribor che il tasso Bce sono prossimi allo zero. A ciò si aggiunga che le banche stanno praticando una sorta di promozione sugli spread, per cui può anche accadere di accendere un mutuo a tasso variabile con un tasso nominale del 1,65%. Assolutamente insperabile fino a qualche tempo fa. Anche l’Irs si è attestato su livelli significativamente bassi e questo lascia intendere che magari quella dei tassi zero non è solo una stagione ma che potrà avere una durata più lunga. In questo scenario, propendere per un mutuo a tasso fisso vuol dire certamente spendere di più, circa il doppio, a confronto con un tasso variabile, ma non è mai stato così conveniente. Inoltre, un ulteriore aspetto vantaggioso che presenta un mutuo a tasso fisso chiama in gioco il potere di acquisto del denaro, vale a dire che l’importo di una rata “bloccato” oggi sarà naturalmente meno significativo tra 15-20 anni. Nei casi più intriganti le banche si spingono ad offrire un tasso fisso pari al 3% che, se paragonato al 18% praticato negli anni 80, si riesce a cogliere ciò che si sta vivendo in termini macroeconomici. In realtà, volendo approfondire l’analisi economica, non si può non evidenziare che, al di là delle apparenze, la situazione generale, paragonata a quella di quell’epoca, non è poi così diversa come può sembrare, anzi in certi termini può presentarsi addirittura peggiore. Il tasso reale, che corrisponde alla differenza tra il tasso nominale del mutuo ossia tasso interbancario più spread più l’incidenza percentuale di tutti i costi dell’operazione, il famoso Taeg, meno il tasso di inflazione, attualmente è praticamente uguale al passato se non più alto. Negli anni 80 in Italia si registrava un’inflazione intorno al 20%, pertanto se un mutuo a quei tempi costava il 18-20% il tasso reale era bassissimo se non negativo per effetto dell’inflazione, la cui azione avvantaggia i debitori, quindi i mutuatari, perché riduce il valore di quanto si paga. Viceversa, oggi l’inflazione è nulla, anzi nel nostro Paese c’è deflazione, per cui, se un mutuo in media costa 2,9%, considerando che i prezzi sono calati del 0,6% questo significa che il costo reale di un mutuo è del 3,5%, quindi più alto che negli anni 80. Dunque, si può concludere che se l’inflazione dovesse raggiungere la quota del 2%, quale obiettivo cui tendono le politiche della Bce, i mutui costerebbero meno da un punto di vista nominale ma anche reale.

 

Michele Monteforte

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